Senza acqua e senza cibo la sopravvivenza è impossibile. Dopo che i progetti avviati a Gaza, dal 7 ottobre 2023, sono inevitabilmente al fermo, oggi come oggi, l’unico intervento di supporto che, grazie alle singole donazioni, possiamo garantire alla popolazione bombardata incessantemente all’interno della Striscia, è la distribuzione di acqua potabile, indispensabile alla sopravvivenza, e resa possibile dalla campagna lanciata un anno e mezzo fa, “Water4Gaza”.
Nel frattempo, in collaborazione con l’associazione Acs di Padova, e grazie al finanziamento di Aics (Agenzia italiana cooperazione allo sviluppo), abbiamo avviato un nuovo progetto in Cisgiordania, a Beit Furik, villaggio a 30 km da Nablus, che rappresenta oggi uno dei tanti simboli della resilienza palestinese. In un contesto di occupazione militare e crescente pressione da parte dei coloni israeliani, il progetto “Emergenza Cisgiordania”, coordinato sul campo da un’equipe locale, punta a rafforzare la sicurezza alimentare e la sopravvivenza economica della comunità.
“La vita quotidiana a Beit Furik è segnata da gravi restrizioni alla libertà di movimento. L’unica entrata al villaggio, condivisa con Bayt Dajan, è controllata da un checkpoint militare sempre più stringente”, ci racconta Fares, responsabile dell’equipe. “Ogni persona che entra o esce viene fermata e controllata. Attese di ore sono la normalità, anche per bambini, persone anziane o malate. Nei momenti di massima tensione, come la recente guerra dei 12 giorni tra Iran e Israele, il posto di blocco è rimasto chiuso per giorni, impedendo persino il passaggio alle ambulanze”.
Beit Furik, è una città circondata da insediamenti di coloni: a ovest Itamar, uno dei più grandi della Cisgiordania; a sud-ovest Khvat Giv Ot Olam; a est altri avamposti, incluso un nuovo insediamento sorto solo due mesi fa.
Oltre a essere accessibile solo tramite il checkpoint, a Beit Furik le incursioni di coloni e forze israeliane sono frequenti: vengono chiusi pozzi, distrutte serre e pascoli, lanciati gas lacrimogeni.
La fine della possibilità di lavoro a Israele, che prima del 7 ottobre garantiva reddito a circa il 60% della popolazione, ha reso l’agricoltura l’unica fonte di sostentamento per gran parte degli abitanti, ma anch’essa è sotto attacco. “Viviamo tra pozzi chiusi, checkpoint che rallentano il commercio, violenze che rendono rischioso lavorare nei campi”, dice ancora Fares. “Le famiglie allevatrici di pecore che, tra ottobre e aprile, si spostavano con gli animali in un’area poco più a sud di Beit Furik, dove vivevano in grotte e tende, visto che non gli era concesso costruire, sono state costrette ad abbandonare l’area. Qualche mese fa, dei coloni hanno distrutto anche quei precari spazi abitativi”.
In un simile contesto, il progetto assume un valore enorme: incontra le estreme difficoltà della popolazione locale, e favorisce gli unici modi in cui ancora riesce a sopravvivere. È un investimento nella comunità, un modo per trasformare la vulnerabilità in forza collettiva e offrire alla popolazione strumenti per continuare a vivere, produrre e restare nella propria terra.
Il progetto prevede la fornitura di reti di irrigazione, sementi (patate, piselli, ocra, fagioli, lattuga), piantine e input tecnici per orti a conduzione femminile. Una scelta strategica, che risponde ai bisogni emersi durante la fase di ascolto comunitario per sostenere l’autonomia economica in particolare delle donne.
Un secondo pilastro dell’intervento riguarda l’allevamento. Nei prossimi mesi verranno acquistate oltre 50 tonnellate di foraggio per nutrire almeno 60 capi ovini, che saranno gestiti collettivamente da una cooperativa femminile.
Le condizioni di sicurezza non permettono di realizzare strutture fisse, che rischierebbero in ogni caso di essere vandalizzate o confiscate. Per questo si sta allestendo una struttura mobile collettiva di circa 220 m², facilmente spostabile in caso di emergenza.
La gestione comunitaria permette di distribuire rischi e benefici, proteggendo le famiglie dalla perdita di un singolo animale, cosa che, in un contesto di economia di sussistenza, può significare la rovina di un intero nucleo familiare.
Un unico spazio custodito riduce i rischi di furti e incursioni, facilita l’assistenza veterinaria, la distribuzione del mangime e la gestione sanitaria.
Per garantire continuità ed efficienza, la struttura sarà dotata di un impianto fotovoltaico, che assicurerà l’energia necessaria al benessere degli animali e alla sicurezza dell’allevamento.
Un ulteriore passo sarà la creazione di un centro lattiero-caseario comunitario, anch’esso in comodato d’uso gratuito, che sarà attrezzato con un impianto di pastorizzazione, macchina confezionatrice, pressa per formaggi, pompa del latte e cella frigorifera. Questa infrastruttura consentirà di trasformare il latte prodotto e generare un valore aggiunto per la comunità.