Il Perù, dal 2000 a oggi, è diventato il Paese dell’America Latina con il maggior numero di morti. In poco più di due mesi, il Governo di Dina Boluarte, nato in seguito al tentativo di colpo di stato di Pedro Castillo, si è aggiudicato un record fatto di sangue e violenza.
I manifestanti, che ogni giorno partono dalle province del Sud del Paese per raggiungere Lima, sono etichettati come “terroristi” dalla propaganda governativa, perché chiedono di partecipare alla vita politica ed esercitare democraticamente il diritto di esprimere la propria opinione. Sono agricoltori e campesinos, e provengono dalle comunità quechua parlanti. La partecipazione politica agli occhi di molti, può sembrare quasi scontata, eppure c’è chi, ancora oggi, deve lottare per difenderla.
La risposta dello Stato è dura e violenta: si contano 62 morti, di cui un poliziotto e dieci minori e oltre 1000 feriti. Le violazioni di diritti umani sono innumerevoli.
Particolarmente preoccupante è l’uso di fucili automatici e delle bombe lacrimogene sparate direttamente sui corpi dei manifestanti. In 10 giorni sono state utilizzate 9 tonnellate di lacrimogeni e gli scontri hanno anche colpito passanti, giornalisti e medici.
È stato documentato un caso di aggressione sessuale multipla all’interno di una stazione di polizia ai danni di un cittadino detenuto nel contesto delle proteste. Durante le visite medico-legali è ricorrente la svestizione completa e diverse manifestanti sono state toccate in modo inappropriato durante l’invasione dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos.
A tutto questo si aggiunge il peggioramento dell’accessibilità agli alimenti e ai beni di prima necessità per le fasce di popolazione più povera, dovuto alla chiusura delle autostrade.
